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"Voglio vincere, per questo ho scelto questa professione. Ma oggi non è un'ossessione, faccio tutto quello che posso per aiutare i miei giocatori. Sono tranquillo e convinto della forza che abbiamo, sia individuale che collettiva". Fermi tutti, fermi tutti. Davvero qualcuno alla Juventus ha detto che vincere non è un'ossessione? Già, è stato Thiago Motta. Proprio l'allenatore della squadra, colui che alla vigilia di una partita importante come una semifinale di Supercoppa Italiana contro il Milan ha messo in secondo piano quell'obiettivo che dal 1897 a oggi (o all'altro ieri?) ha segnato indelebilmente la storia della Vecchia Signora: la vittoria, "che non è importante ma è l'unica cosa che conta", e che quindi va ricercata con tutte le forze "fino alla fine", come se da ogni partita dipendesse una stagione intera.

Ed è proprio così, allora, che si spiega la sconfitta dei bianconeri contro il Milan. Perché la Juventus, ancora una volta, si è fatta trascinare dalla paura di perdere, più che dalla voglia di vincere. Perché Thiago Motta ha sostituito Dusan Vlahovic - che è sempre tanto discusso, che ha giocato un'altra partita opaca, ma che comunque rimane l'unico centravanti a disposizione - mandando in campo a gara ancora aperta Andrea Cambiaso, peraltro incomprensibilmente escluso dall'undici titolare. E perché lo stesso allenatore era pronto a lasciare di nuovo in panchina Kenan Yildiz, il talento più luminoso di questa Juve, e ha tenuto in campo per 90 minuti Teun Koopmeiners, non esattamente brillante in questo periodo.

Nessuno ha la bacchetta magica, e nessuno alla Continassa sembra avere la ricetta giusta per ritrovare presto una squadra vincente. Di fronte a un gruppo che sta affrontando un percorso di crescita e rinnovamento, composto da tanti giovani e pochi "veri" leader, sono però importanti anche le parole, parole che questa volta Thiago Motta non ha usato come avrebbe dovuto. Sarà che forse il motto di bonipertiana memoria non è ancora ben impresso sulla sua, di pelle.



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