
Dentro l’intervista di Thiago Motta: cosa non torna
Thiago Motta si è presentato senza rancore, senza accuse, ma con la volontà di chiarire la sua posizione, il suo percorso e, soprattutto, di mettere un punto alle tante voci e retroscena circolati negli ultimi mesi. Un intervento che non va preso alla leggera, perché se da una parte cerca di riportare serenità attorno alla sua figura, dall’altra solleva inevitabilmente nuove domande.
Un racconto che non convince del tutto
Leggendo le parole dell’allenatore, emerge una narrazione quasi idilliaca: uno spogliatoio unito, un rapporto solido con la dirigenza, e un progetto tecnico coerente. Tutto sembra filare liscio, almeno nelle sue parole. Eppure, la domanda sorge spontanea: se davvero tutto funzionava così bene, com’è possibile che si sia arrivati all’esonero?
La sensazione è che qualcosa non torni. È evidente che ci siano state difficoltà, sia di campo sia nei rapporti interni. Non è necessario andare a ripescare ogni indiscrezione o polemica per intuire che l’ambiente non fosse sereno, che i risultati non arrivassero, e che qualcosa si fosse incrinato nella fiducia reciproca tra società, allenatore e squadra.
Autocritica sì, ma con riserva
Motta ribadisce più volte di non essersi mai sottratto all’autocritica. È vero: durante le conferenze stampa ha spesso assunto le sue responsabilità. Ma nel quadro che dipinge nell’intervista, questa autocritica sembra un po’ troppo tenue, quasi diluita. L’allenatore continua a sostenere che la sua strada fosse quella giusta, e che il suo progetto meritasse di essere portato avanti. Forse sì, ma i risultati raccontano un’altra storia.
Non si può ignorare l'eliminazione in Coppa Italia contro l’Empoli, o l'uscita dalla Champions per mano del PSV, squadra poi travolta nel turno successivo. E nemmeno i crolli contro Atalanta e Fiorentina, che hanno sancito l’addio. Infortuni, rosa da rinnovare, poca esperienza: tutte attenuanti valide, ma insufficienti a giustificare un cammino negativo.
Un fallimento da cui ripartire
Il vero errore, forse, è nella prima riga dell’intervista: non riconoscere apertamente che l’esperienza alla Juve sia stata un fallimento. Perché sì, è stata tale. Non solo sua, ma anche della squadra e della dirigenza. Ma dai fallimenti, che sono umani e a cui ognuno di noi è soggetto, si può imparare e si può ripartire. Si deve imparare.
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