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Ci fosse un Plutarco del pallone scriverebbe sicuramente un capitolo di “Vite Parallele” dedicato a Spalletti e ad Allegri. I ritratti del grande storico, si sa, traevano spunto da alcuni elementi in comune tra personaggi storici per stabilire, soprattutto, differenze.

Spalletti e Allegri sono entrambi allenatori, entrambi toscani. Tutti e due hanno giocato a calcio (centrocampisti),  sono stati e sono alla guida di squadre importanti; spesso hanno incrociato le loro strade o i loro fioretti, confrontandosi ai vertici della classifica. Fosse capitata nella prima fase del campionato Napoli-Juventus sarebbe stata relegata a qualche sfottò o a qualche dichiarazione di prammatica (anche se i bianconeri, da anni, non sono certo molto amati alle pendici del Vesuvio) dovuti al divario, nel gioco e in classifica, tra le due squadre. Ora, i napoletani (anche se a +7) un po' temono la Juve, la sua capacità di non giocar bene, ma vincere, le sua scarsa brillantezza, ma anche la sua continuità.

Uguali e diversi condottieri. Alfiere d'una toscanità di costa Allegri, rappresentante del centro collinare Spalletti. Il loro modo di essere si estrinseca anche nel loro modo di parlare. Non solo nella cadenza, anche nell'argomentare. Il labronico minimizza, relativizza, svia il discorso, usa il sorriso come scudo giovanile. Ha una concezione del calcio proverbialmente semplice e realista: pensa che l'allenatore, prima di tutto, non debba ostacolare i giocatori. Li striglia (soprattutto negli ultimi minuti), crede nel carattere, nella concentrazione, ma assai meno negli schemi e pensa che bellezza del gioco non faccia rima con risultato. Spesso è stato tacciato di anticalcio, ma ha vinto molto. Spalletti, invece, non nasconde l'importanza delle strategie. Non è un visionario alla Sacchi, però riconosce la necessità degli schemi. E' più ombroso di Allegri, risponde duramente anche al pubblico che, più o meno beceramente (vedi Firenze) lo contesta, mentre quell'altro dice come “sia sempre bello venire al Franchi”. Se vince è soddisfatto e sobrio, se perde s'infila in un pozzo di San Patrizio metafisico in cui racconta partite surreali fatte di frasi del tipo: “se non si va avanti si resta indietro”, “a girare intorno, al centro, si fa un girotondo, ma non siamo più bambini” in cui il filo si perde e si riannoda in continuazione. Il suo è un sorriso affilato come una lama. Ultimamente vince sempre o quasi e quindi parla poco, ma all'Inter era un andirivieni pseudodialettico vorticoso, impossibile da arginare, pena lo sguardo fulminante e la reazione stizzita. Ha vinto in Russia, non moltissimo in Italia.

Tutti e due gufano: domani sera non si affrontano solamente due squadre.