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Quando tagliavano la testa ai re o ai briganti la folla accorreva entusiasta. La morte pubblica è sempre stata uno spettacolo. I governanti di tutti i tempi hanno utilizzato le esecuzioni come monito e avvertimento, sacro e profano allo stesso tempo. Orrore, paura, godimento si mischiavano nelle folle raccolte davanti ai fucilieri, ai cappi o alle ghigliottine di fronte a esecuzioni capitali che, spesso, sancivano la fine e l’inizio di un’epoca.

La morte di Mino Raiola ricorda, in parte, tutto questo. Solo che siamo in tempi diversi e alle piazze si è sostituita la rete, al giudizio dei tribunali la malattia. Ma la pulsione è la stessa. Fa impressione assistere alle centinaia di esecuzioni digitali decretate nei confronti di qualcuno che ha avuto una sola colpa: morire ai tempi dei social. Fra qualche “Riposa in pace” o “Comunque la si pensi, è la morte di una persona”, sono decine, per non dire centinaia i commenti del tipo “Finalmente!”, “Giustizia è fatta!”, “E ora che te ne fai di tutti quei soldi! Ben ti sta” ecc. Tralascio, per pudore e sgomento, il resto.

Raiola è stato un dittatore che ha mandato a morte migliaia di uomini e donne? Un massacratore genocida? Un truffatore infame capace di rovinare la vita a migliaia di persone? No, è stato, semplicemente, un procuratore che ha lavorato nella piena legalità, come altre centinaia di professionisti il cui compito principale era, ed è, quello di essere dalla parte dei propri assistiti. Eppure viene percepito come il demonio perché cercava, spesso ci riusciva, di alzare la posta dei calciatori da lui patrocinati. Mendes o Damiani non fanno lo stesso? Sì, però uno è più felpato e più diplomatico, l’altro, per dirla volgarmente, “fa meno soldi”. Questione di stile (termine ambiguo) e di ricchezza (più solido), a cui attingono buona parte degli sberleffi post mortem con un buon tasso di gratuita invidia sociale,  che si nutre per quasi tutti quelli capaci di ottenere un vistoso successo economico. C’è, inoltre, un malinteso senso del tifo, secondo il quale si risulta molto più sensibili alle offese (un calciatore che se ne va) rispetto alle affermazioni (un calciatore che arriva). Un procuratore è protagonista di entrambi i movimenti, ma si tende a ricordare solo i primi.

Da ultimo, un’ipocrisia di fondo: trovate qualcuno che è contro la libertà di contrattare una prestazione lavorativa? Contro il principio che, alla fine d’un contratto, un lavoratore possa scegliere a chi offrire la propria prestazione? Non sono stati Raiola, Pastorello, Barnett, Mendes a scrivere la sentenza Bosman, con le relative conseguenze alla possibilità, per i giocatori, di trasferirsi gratuitamente alla fine del loro contratto, a un’altra società calcistica europea. Non sono stati loro a stabilire, per il calciatore-lavoratore, il diritto di firmare un pre-contratto con un’altra società a parametro zero negli ultimi sei mesi del proprio accordo col precedente club. Sono questi i passaggi chiave capaci di determinare l’evoluzione dei rapporti di forza tra società e calciatori con relativa “escalation” del ruolo dei procuratori. Una realtà che, per esempio, nel mondo dello spettacolo (attori, cantanti ecc.), è alla base dell’industria cinematografica, teatrale e musicale, senza che, per altro, gli spettatori s’indignino se l’agente di Brad Pitt o Nicole Kidman ottiene per loro condizioni economiche migliori. Non ripetiamo forse, da decenni: il calcio è un’industria?

Mino Raiola è stato uno dei protagonisti di quest’industria con le sue regole, le sue istituzioni, in evoluzione come tanti altri contesti. Non si merita, per questo, di essere lapidato con lo scherno e l’invettiva solo perché è morto a 54 anni.