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Pierluigi Frosio, bandiera ed ex capitano del Perugia, ha parlato sulle colonne de La Gazzetta dello Sport di Paolo Rossi, con cui ha condiviso lo spogliatoio per quasi un anno:

Il Perugia l’ha perso quando Rossi era nel momento migliore…
«Aveva fatto 13 gol in 28 partite più uno in 4 gare di Coppa Uefa. Peccato, fosse rimasto ancora con noi avremmo potuto ripetere lo straordinario campionato del 1978-79, quando abbiamo chiuso imbattuti e al secondo posto in classifica (dietro al Milan, ndr). Con quel Perugia eravamo sempre molto competitivi, con Paolo lo eravamo ancor di più».

Le scommesse.
«Ma lui non c’entrava niente, figuriamoci. Un attaccante come può combinare un risultato? A Paolo importava soltanto segnare. Ma anche altri erano rimasti ai margini di quella brutta storia».

Che giocatore era Paolo Rossi?
«Quello che tutta l’Italia ha imparato a conoscere: non un fisico eccezionale, veloce, rapido di gambe e di testa. Aveva un tiro secco, preciso, anche se non esplosivo. In area, non si sa come, le palle finivano sempre a lui, non certo al difensore Frosio. E’ stata una fortuna ed un piacere giocare con lui anche se soltanto per un campionato, i nostri rapporti erano molto buoni».

E fuori dal campo?
«Un tipo tranquillo, che non si era montato la testa, nonostante fosse un emergente del nostro calcio e fosse stato sul punto di andare alla Juventus. Sa la cosa che ci aveva stupito di più?».

No, quale?
«Lui aveva lo sponsor personale che non coincideva con quello della squadra e per questo andava in campo con una maglietta diversa dagli altri, da noi giocatori... normali. Erano 5 centimetri quadrati di scritta, non certo paragonabile adesso, qualcosa di illeggibile dalla tribuna. Lo stesso accadeva sulle tute e sul resto. Gli sponsor erano una svolta, era caduto un tabù del calcio italiano».

Vi guardava dall’alto in basso, lui che non era certo un gigante?
« Assolutamente no. Anche se già discretamente famoso, Paolo era una persona alla mano. E poi averlo al Perugia era stato un vantaggio anche per un altro motivo…».

Cioè?
«Quando andavamo a fare le partitelle di allenamento del giovedì, gli avversari pagavano qualcosa alla società per vedere Pablito in campo. Era un’attrazione, ma per noi si trattava di un privilegio e anche di un motivo di orgoglio averlo come compagno di squadra».

Vizi?
«Si fumava qualche sigaretta. Come tanti di noi, me compreso…».

Ricorda qualcuno dei suoi gol?
«Devo essere sincero, nessuno in particolare. Figuriamoci ho cancellato anche i miei, che pure sono stati pochissimi… Ma lo stile era quello, unico, quasi inimitabile: rapina in area e via. Soltanto contro il Brasile ha segnato con un tiro da fuori area».

A proposito: sorpreso di vederlo grande protagonista nell’82?
«Sono sincero: un po’ sì, perché prima del Mondiale aveva giocato poco a causa della squalifica, fisicamente non era ancora a posto. Poi…».

Poi?
«È successo l’imprevisto che rende così bello il calcio: ha cominciato subito a segnare e quando un attaccate ritrova il gol si trasforma in pochissimo tempo. Figuriamoci lui che con quel fisico entrava in forma prima degli altri anche se aveva i problemi alle ginocchia che a volte lo frenavano. Ma vorrei dire che i meriti di quel Mondiale non sono soltanto di Pablito».

Bearzot?
«Certo, il c.t. è stato bravissimo a insistere su un giocatore che pure aveva qualche incognita dal punto di vista fisico. Magari un altro allenatore l’avrebbe aspettato, facendo giocare Altobelli in coppia con Graziani».

Vi siete sentiti in questi anni?
«No, ci eravamo persi di vita, come spesso capita nel nostro mondo. Non sapevo neppure della malattia, per questo sono rimasto sorpreso. E sconvolto».

Quanto ha lasciato nel calcio italiano?
«Tantissimo, ha inciso alla grande non solo sul Mondiale ed è diventato uno dei più importanti in assoluto. Aveva un modo di giocare unico e la gran capacità di farsi trovare al punto giusto quando c’era da far gol».