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E così all'Inter ora gli indonesiani sono due. Numero uno, un tycoon proveniente dall'Asia, che va tanto di moda (e di bancarotta) a Milano. Quale sia la consistenza delle sue quote nel guazzabuglio post morattiano, non è dato sapere, se non a posteriori di una bella indagine, atta a smantellare l'organigramma di scatole...cinesi. L'altro è il “cacio sui maccheroni”, il “Dio li fa e poi li accoppia” in versione lungo i navigli.
Erik Thohir è l'unico che si può permettere di salutare Radja Nainggolan nella lingua madre. Sempre che nel frattempo una spessa coltre di romanesco non abbia disattivato i pochi, sporadici neuroni ancora originali. Ebbene sì, che il tatuaggio sia con voi, la cresta da mohicano pure, nonchè l'aplomb da lupo di mare del Nord (lupo? Ecco perché vestiva giallorosso).

Mai nessuna altra volta, mai in nessun altro dove si era vista una maglia entrare così in simbiosi con il suo indossatore. Beh, quando il connubio tra modello e divisa giunge a livelli di tale levatura, non si può altro che restare abbagliati dalla perfezione. Un pavido orientale che se la fa sotto di fronte a tipi tosti che gli chiedono se è vera la voce di un passaggio alla Juve, che sfoga le proprie frustrazioni di piccolo uomo (o di uomo piccolo?) addosso ad una martire di moglie, che spesso lascia la truppa per farsi la doccia prima del previsto e a partita in corso, dove poteva approdare se non nel luogo in cui il destino accomuna gli antijuventini?
Mi fanno tenerezza i maschioni romanisti che accerchiavano la sua auto. Alla Juve? Ma lo avete visto bene? Che non ci andasse mai, era scritto nello sguardo. Mission impossible.

Nainggolan era destinato là dove si vince lo scudetto tutte le estati, chiacchierando sotto l'ombrellone, sognando “il tricolore che non vincerà”. Era destinato a lunghe interviste farneticanti, più o meno incomprensibili come il verbo del mister che fortemente lo ha voluto (così almeno dice il tatuaggio ambulante). Il vaneggiamento la fa da padrone: “Prima o poi la Juve sbaglierà”. Probabile, come altrettanto potrebbe essere che all'atto dello sbaglio i prescritti siano ormai a distanze siderali. Vedete bene che parole e musica sono da Inter? Nell'accezione più completa e paradigmatica.
Ci voleva lui per gridare al miracolo delle bausciate: “Io sono un vincente e la squadra ha bisogno di questa mia qualità”. Da premio Pulitzer. Sono andato a controllare il ricco palmares di cui si vanta “l'ultimo dei mohicani”, pensando di trovare coppe, trofei, medaglie. Solo ragnatele, anzi per meglio dire “radjatele”, polvere a iosa, il vuoto spinto. Il “niente” tracciato col bicchiere.

E allora si comprende che mai scelta fu più dettata dall'avere un degno “portatore di maglia”. Vero esempio di come si vinca e di come si arrivi in punta di piedi, da autentico educando. Quale differenza con i sorrisi ed i silenzi di Emre Can e di Cancelo, in abito scuro e pochette. Rispetto al cappellino al contario, bermuda da tamarro e chewingum di ordinanza, davvero un abisso. Come la distanza in classifica, ad ogni fine di campionato.