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Quando finisce Aston Villa – Juve, il primo pensiero è che l’ultima volta che la Juventus ha realizzato una rete era il giorno 9 di questo mese che sta per finire. Un respiro, qualche secondo per prendere fiato dopo il pericolo finale e la parte più positiva del mio lato da tifoso è pronta a ribattere: in mezzo c’è stata la sosta e la mia squadra non subisce gol da ancor più tempo, precisamente dal 5 novembre, ore 21.27 circa, a Lilla. Poi sono arrivati il derby e le temute trasferte di Milano e Birmingham e di reti subite non vi è nemmeno l’ombra. Via i cattivi pensieri, testa al Lecce.

Il grande problema di pareggiare così spesso è proprio questo: l’alternanza di umore, speranze e timori a seconda di quella trita e ritrita storia del bicchiere e di come lo vedi.

Vale tutto, quando pareggi sempre: è il momento della riscossa per i supporter del vecchio corso – per chi venisse da Marte, la premessa è che masse di tifosi della stessa squadra sono divise su tutto ormai da anni, eternamente a caccia di capri espiatori vecchi e nuovi -, perché “serviva un nuovo tanto strombazzato progetto per pareggiare 9 partite su 18 e segnare così poco?”. Ma è anche l’occasione per gli hater di chi c’era, conseguentemente fan di chi è arrivato dopo, per ricordare che “finalmente si gioca a calcio, sappiamo tenere il pallone e senza mille titolari siamo sempre lì, avendo perso una sola partita in tanti mesi…”.

Divisi su tutto tranne su un tema che ci unisce tutti, gli infortuni: lì il bicchiere è vuoto per tutti, anche per quello strano fenomeno che fa somigliare a un incubo perfino un comunicato teoricamente rassicurante sull’assenza di lesioni e il recupero da valutare giorno per giorno: “ho capito, lo rivediamo tra un mese”.

La visione cambia completamente anche all’interno della stessa partita, a seconda della prospettiva che si decide di assumere: da un lato può rimanere impresso l’incredibile gol non gol di Conceicao, salvato per pochi millimetri quando tutti ormai guardavamo solo l’arbitro perché “dai, ora fa il segno dell’orologio, proprio come Ronaldo con l’Atletico”, dall’altro la parte più scura della coscienza ci richiama all’ordine ricordando un paio di occasioni per i rivali più il gol annullato all’ultimo secondo. Cancellato per un fallo netto ma, almeno per chi guarda in tv, il sollievo arriva solo dopo alcuni interminabili secondi, uno strano gesto dell’arbitro, la prolungata esultanza del marcatore e dei suoi compagni e l’indicazione della convalidazione della rete sul tabellino che appare in diretta in alto, fastidioso e sgradevole anche quando avevamo capito che il gol non era mai stato assegnato. 



Speranze, paure, timori: tutto in 90 minuti, come in questi primi mesi di calcio propositivo ma non abbastanza incisivo nell’altra metà campo, ove il capro espiatorio designato è il centravanti e in sua assenza colui che lo sostituisce fuori ruolo e con la febbre, perché senza un colpevole cui affibbiare ogni responsabilità a noi non piace stare. Meglio se con un riferimento un po’ populistico alla spesa o al guadagno eccessivo, così non ci facciamo mancare alcunché.

E allora rieccolo, quel maledetto bicchiere, che si svuota quando vedi che siamo sesti in A e diciannovesimi in Champions e si riempie quando pensi che con un nuovo progetto, la Juventus più giovane mai schierata e mille infortuni in fondo sei sempre lì, nel gruppone centrale in Europa e vicino alle primissime in Italia: se siamo in ballo ora, pensa quando saremo al completo, magari già dopo alcuni acquisti a gennaio (inizio del mese, se possibile, altrimenti passa un mese di calcio e diventa troppo tardi). E questo vale per l’allenatore ma anche per il mercato di Giuntoli, perché di fronte a chi tira fuori la tiritera dei 200 milioni e le osservazioni sull’evanescente Douglas, il Koop non ancora al meglio e il mai più visto Nico Gonzalez, si ha buon gioco nel ricordare gli exploit di Kalulu – bravo a sostituire il più forte difensore della Serie A -, la crescita di Thuram e la folle passione che ogni juventino prova già per Conceicao: corsa, resistenza, tecnica, dribbling, tiro e cross, a fronte del solo grave difetto di essere l’unico pericoloso simulatore di tutta la Serie A, capace, con il suo bieco comportamento giustamente sanzionato, di estirpare quell’annoso problema dal massimo campionato nostrano. Da lì, non si tuffa più nessuno e la correttezza si è impadronita del calcio italiano. Vedi di non fare più il furbo perché ti teniamo d’occhio, diabolico Francisco.

Maledetti pareggi, che rischiano di farci perdere la lucidità quando forse la realtà è più semplice di quanto crediamo: un misto di tutte le prospettive appena esposte, una squadra giovane, in costruzione, che spesso fatica a produrre occasioni ma che non crolla mai, difficile da battere e che prova a giocare senza perdere compattezza e possesso palla anche con la rosa decimata. Una squadra cui forse, a fronte dell’asfissiante ricerca di un capro espiatorio dopo l’altro, manca soprattutto la capacità di affollare l’area avversaria, magari mettendoci un po’ di rabbia e malizia per chiedere un aiuto alla fortuna e modificare quell’immagine beffarda di un pallone che sembra entrato del tutto ma incredibilmente ha quella minima parte che è rimasta fuori.

Perché a volte, per riempire interamente un bicchiere, non serve chissà quale formula segreta. Basta solo qualche millimetro in più.