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Il dottor Paolo Jarre è lo specialista che cura la dipendenza dal gioco d'azzardo di Nicolò Fagioli. E ha parlato al Corriere dello Sport, spiegando: "Nicolò in questo momento sa che non è solo, sa che la Juventus non lo abbandona. È un investimento in fiducia. È dare una prospettiva stabile alla sua carriera e direi alla sua vita, dando contenuto a quel vuoto interiore che Nicolò sentirà per i prossimi 7 mesi. Sapere che c’è qualcuno che non solo lo aspetta, ma che crede ancora in lui, può davvero salvarlo". 
 
PROBLEMA - «Credo di sì. Il problema del gioco d’azzardo riguarda dall’1 al 3% della popolazione. In Serie A ci sono circa 500 calciatori, quindi coinvolgerebbe dai 5 ai 15 atleti. Siccome poi sono maschi, giovani, con tanti soldi, tanto tempo libero e in media hanno un basso livello d’istruzione, quell’1-3% va moltiplicato almeno per 3. Per me il problema riguarda almeno 40 calciatori di A» . 
 
NON TUTTI SUL CALCIO - «Vero, ma quel confine è singolare: lo sportivo professionista diventa ricattabile perché si indebita e, volendo, può ripagare i debiti molto facilmente facendo scommettere i creditori magari su una propria ammonizione... ll problema non lo risolviamo facendo una differenza di discipline, dire che non è un problema se un calciatore scommette milioni su altri sport la trovo una banalizzazione un po’ ipocrita».  

TROPPI SOLDI - «Si sentono invincibili. Hanno una quantità di soldi enormemente superiore rispetto a quello che serve loro. Un medico dopo 30 anni di lavoro guadagna 4.500 euro al mese, loro 100 mila a inizio carriera. I soldi per questi ragazzi sono come delle fiches, in tasca è come se avessero denaro del Monopoli». 

COME UNA DROGA - «Perché una puntata al gioco d’azzardo attiva nel cervello l’equivalente di una sostanza psicoattiva, è quasi una droga. Dà le stesse sensazioni di un gol, di un assist, di un rigore decisivo. Il lavoro che va fatto con i ragazzi ludopatici è diminuire i picchi e abituarli a spalmare quel piacere tramite gratificazioni che durano nel tempo».  
 
SITI ILLEGALI - «Perché quelli legali non garantiscono la stessa “dose” di dopamina. E poi non garantiscono in toto l’anonimato, hanno limiti di vincite che i calciatori ritengono irrisori e non concedono nella fase iniziale i crediti che danno le piattaforme illegali».