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Dei De Ligt e delle pene, severe, del destino finalmente rovesciate. Una volta riposta la polvere delle polemiche arbitrali sotto al tappeto, Atalanta-Juve dovrebbe trattare quasi esclusivamente di questo: la (ri)nascita di Matthijs e la sua prima consacrazione italiana. Arrivata su un campo ostico, pesante, spesso teatro di uno contro uno con i migliori interpreti offensivi dell'intero campionato. Per 70 minuti, continuamente in grado di affrontarlo a viso aperto. 

CHE PARTITA - Papu, Barrow, Muriel. Gosens che sguscia ovunque, Hateboer sulla destra costantemente in proiezione offensiva. Le frecce dell'Atalanta sembravano avanzare stile Pacman impostato alla massima difficoltà. Nella bufera nerazzurra, con Bonucci attento a salvaguardare il lato di Cuadrado (senza l'aiuto costante di Khedira), De Ligt si è ritrovato a indossare fiero l'elmetto, a difendere avanzando il corpo e anticipando le intenzioni degli avversari. In parole povere: ha rischiato e gli è andata bene. Ma non per una questione di fortuna: è che quando prendi la sorte di petto, una soluzione la trovi sempre. Figuriamoci se hai dalla tua un talento formidabile nel leggere le intenzioni altrui.
 
DA ADESSO - Adesso ci si diverte. Perché questa è una vittoria che esalta Matthijs, nelle sue doti tecniche e in quelle morali. Perché questa, soprattutto, è una gomma che cancella un bel pezzo della difficoltà iniziale. Che spegne le polemiche e che in qualche modo giustifica la tranquillità della società, costantemente e coerentemente al suo fianco. De Ligt non s'è fatto grande in una domenica di fine novembre: però ha iniziato a capire. Cosa? Che ci vuole coraggio per affrontare i parolieri e gli attaccanti. Che ogni lampo di talento dev'essere necessariamente accompagnato a un percorso di responsabilità. Che è la continuità a fare la differenza, per un difensore, all'interno di una prestazione. La pioggia di Bergamo tipo acqua santa: ha battezzato l'olandese volante, con le mani dietro la schiena, e un futuro radioso davanti.