Corsa, volontà, ossessione della giocata lo avevano gettato in una specie di nevrosi della fretta, spesso tradotta in furore. Dominata dalla precipitazione, la talentuosa ala destra, dopo un buon esordio torinese, iniziò ad avvitarsi vieppiù in giocate di prima sbagliate, in passaggi di tre, quattro metri a vuoto, in scatti e ritorni cervellotici, in dribbling risibili. Era quasi sempre fuori tempo, sempre troppo presto o troppo tardi, irruento come un principiante che si butta sulla palla. Veniva dominato dalla foga e dall’obbligo di far bene. La sua testa non sembrava mai sgombra da quest’unico imperativo: “Ve lo faccio vedere chi sono io!”. E invece inciampava, franava sull’avversario, scagliava il pallone sei metri sopra la traversa. Direttamente proporzionale al suo impegno ossessivo era lo scherno del pubblico. Più sbagliava, più veniva fischiato, più s’intestardiva.
Alla Juve, ben tre allenatori con Bernardeschi non ce l’avevano fatta, pur provando a capirlo perché in allenamento era volonteroso, perché la corsa sembrava convincente e perché voleva rimanere in bianconero ad ogni costo. Ma il delizioso sinistro a giro dalla destra non entrava più, i cross partivano sghimbesci, il suo “uno due” era quasi sempre un “uno zero”.
Ora Federico Bernardeschi si sta prendendo qualche rivincita non solo su chi non lo stimava, ma forse anche su se stesso, su quella sfiducia che era lui ad alimentare come se ogni partita rappresentasse un giudizio universale. Con il Cagliari è stato il migliore in campo, in precedenza ha fornito assist deliziosi e di prima. Rinascita forse è dir troppo, ma siamo sulla buona strada. Anche se fa impressione il fatto che ci siano voluti più di due anni per restituire alla propria squadra un buon giocatore.
Sì, siamo sulla buona strada, a patto che Federico traduca in istinto l’idea che il calcio è fatto anche di errori e, alla fine, tutte le maglie, almeno in grammi, hanno lo stesso peso.