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Questa volta Massimiliano Allegri potrebbe aver ragione: che senso ha fischiare a prescindere un giocatore, magari ancora prima del suo ingresso in campo, in uno dei momenti più difficili della storia recente della squadra, in cui il sostegno dei tifosi può e deve fare la differenza? Probabilmente nessuno. Non sorprende nemmeno più di tanto, quindi, la reazione del tecnico nel finale di Juve-Fiorentina, quando il volume delle critiche dagli spalti si è alzato fin quasi a coprire tutto il resto. Nel mirino, probabilmente, Mattia De Sciglio e Moise Kean, con una differenza sostanziale: il primo è stato autore di una buona prestazione, con gamba e personalità; il secondo, entrato in campo al 65' al posto di un non brillante Dusan Vlahovic, non è riuscito a fare ciò per cui era stato invitato ad alzarsi dalla panchina, ovvero contribuire alla missione di chiudere la partita.

E allora, giù fischi. E riecco il mantra: "Kean non è da Juve". Potrebbe essere vero, ma in questa sede non intendiamo entrare nel merito della questione. Il punto forse è un altro, quando si tratta di parlare di lui. L'attaccante azzurro ha esordito in Serie A, proprio con la maglia bianconera, il 19 novembre 2016: aveva 16 anni e 264 giorni, e fu il primo classe 2000 ad essere "lanciato" tra i grandi (proprio da Massimiliano Allegri, tra l'altro). "La giovane promessa del calcio italiano", "Il predestinato", "Il bambino capace di surclassare ragazzi più vecchi di lui": allora i giornali non lesinarono parole forti nella narrazione di quell'attaccante cresciuto nelle giovanili della Juve, spesso paragonato a Mario Balotelli per le sue doti fisiche e tecniche (oltre che per una sua esultanza con la scritta "Why always me?", ma questo è un altro discorso).

Forse, quindi, sta tutto qui il senso del discorso: Moise Kean è stato investito di enormi aspettative, di una pressione che magari non era pronto a gestire perché chissà, magari al suo talento non si poteva nemmeno chiedere più di quello che stava dando. Le peregrinazioni tra Verona ed Everton non hanno contribuito al suo definitivo salto di qualità (4 gol in 20 partite in gialloblù, 4 in 39 in Inghilterra), mentre è andata meglio la sua esperienza francese al PSG (17 reti in 41 apparizioni). Poi il "brusco" ritorno alla Juve, con la richiesta - ed ecco di nuovo la pressione - di sostituire un certo Cristiano Ronaldo. E hai voglia ad accontentarli... Non per niente tutto faceva pensare che la scorsa estate dovesse cambiare aria un'altra volta, almeno in prestito, e invece poi ne è stata decretata la permanenza, ma solo per occupare un posto "alle spalle" di Dusan Vlahovic e Arek Milik (oltre a Federico Chiesa e Angel Di Maria). Insomma, forse non la situazione più semplice da gestire per Moise, che comunque si è fatto trovare pronto in assenza del serbo e qualche squillo l'ha offerto, al punto da spingere Massimiliano Allegri a parlare di una certa difficoltà da parte sua a lasciarlo in panchina, alla luce della sua crescita. E allora davvero, basta fischi. A giugno, poi, si faranno i conti.