Omar Sivori nella sua "facenda" chiamata Juventus
Sorride, nella foto, Omar appoggiato alla staccionata dell’ingresso alla "facenda” dove trascorse le ultime stagioni della sua esistenza dopo essere tornato in Argentina. Un luogo stupendo e quasi magico alle porte di San Nicholas affacciato su di un laghetto confinante con una distesa di prati verdissimi nei quali pascolavano i cavalli per i quali il campeon andava fiero. La volle battezzare “Juventus” e non avrebbe potuto essere diversamente. Per Omar l’Italia era un sogno in bianconero, i colori della squadra che si sarebbe portato dentro per tuttala vita anche se Napoli gli aveva dato tanto. Ma erano due cose diverse.
Con lui, prima da ragazzo e poi da uomo fino a che è durata, ho imparato molte cose. Mio padre, Pino, era un suo amico. Spesso, al pomeriggio, andavamo insieme ad aspettarlo fuori dal Comunale dopo l’allenamento. Si fermava, da solo, fuori dallo stadio a fare quattro chiacchiere con il babbo. Io l’osservavo in silenzio intimidito da quella presenza così importante. Poi, ricordo, che lui tirava fuori una noce dalla tasca del suo cappottaccio e cominciava a palleggiare per farmi divertire. Solo per me. Poi ci lasciava per puntare dritto verso l’altra parte del Corso Agnelli dove nel separè del Bar Muccinelli, grande ex bianconero, lo attendevano il mister Cesarini con Gino Stacchini e un altro amico. Avrebbero fatto notte giocando a poker. Un rito che si ripeteva almeno due volte a settimana. Quando lo raccontavo ai compagni di scuola non ci credevano e pensavano che dicessi balle. Da Baggio in poi, mai più visto campioni fermarsi in strada a parlare con la gente. Che uomini, quelli là. Sivori, per me, è ancora oggi un viaggio in treno. Torino-Firenze e ritorno. Il 23 ottobre 1960. Avevo tredici anni. Un amichetto fiorentino conosciuto a Finale Ligure in estate, Enrico Del Re viola perso, aveva invitato me e papà a vedere la partita dell’anno. Prendemmo il treno sul quale viaggiavano anche i giocatori bianconeri. Ero eccitato. La mia Juve del mio Omar contro la Fiorentina più bella della storia. Poi allo stadio. Novanta minuti sotto il diluvio. Non solo acqua, però. Tre a zero per i viola che usarono l’ultimo quarto d’ora per sfotterci con il torello. Il viaggio di ritorno fu un funerale. Non per Sivori e per mio padre che, con Charles e Stacchini, sfogarono la loro amarezza giocando a scopa per tutto il tempo. Mi addormentai in un oceano di fumo. Per la cronaca a Torino, nella gara di ritorno e con Enrico e suo padre invitati da noi, La Juventus vendicò l’onta con un tre a zero. Torello compreso.
Mi viene da sorridere quando sento e leggo di Platini che diceva al Trap: “Mica devo correre io, c’è Bonini che lo fa per me”. Il copyrigth non è del francese, ma di Omar che diceva a Heriberto: “Mister mica devo correre io, c’è Emoli che lo fa per me”. La pagò cara. HH2 non amava l’ironia e neppure i campioni un poco maledetti. E quando Sivori, prima ancora che alla stampa, disse a mio padre che sarebbe andato a Napoli piansi come una fontana. Probabilmente, anzi ne sono certo, anche lui pianse perché la Juventus e Torino erano la sua casa e quella della sua famiglia che dovette sopportare anche la tragedia del quindicenne Humberto, fratello di Nestor, ucciso dal cancro.
Rividi Omar molto più tardi, quando già scrivevo per Tuttosport. Invecchiato fuori ma non dentro. Con la pancetta, ma gli occhi intelligenti e vivi come sempre. Allenatore mediocre, come tutti i fuoriclasse. Commentatore televisivo pericoloso perché verticale nelle sue opinioni senza censure. Fu così che decise di realizzarsi come allevatore di cavalli nella sua San Nicholas. Ci sentivamo al telefono per Natale. Era felice e orgoglioso della sua “facenda” Juventus. Quindici anni fa il telefono squillo a lungo e a vuoto. Il cancro al pancreas non perdona ed è velocissimo. Anche mio padre Pino se ne andò così. Di Omar Sivori mi è rimasto il “vizio” come quello per le sigarette. E ora anche la fotografia che Nestor ha voluto regalare al mondo.