in particolare se trovano il coraggio di ammettere la loro episodica defaillance.
Cristiano Ronaldo è, come lo era Pavarotti, una leggenda vivente. Appartiene a quella schiera, più o meno esigua, di campioni pensanti e quindi consapevole oltreché dei suoi mezzi smisurati anche delle sue fragilità. Essere il numero uno non significa automaticamente ritenersi o venir considerato intoccabile al di là di ogni ragionevole dubbio. Ieri, per esempio, il fuoriclasse portoghese è incappato in una serata decisamente storta di quelle che ti rendono persino sconosciuto a te stesso. Fin da subito si è visto che CR7 non sarebbe stato all’altezza, fisica o psicologia chissà, del suo potenziale e del suo pedigree anche se di fronte aveva avversari tignosi ma abbondantemente alla portata. Fortuna che, essendo il calcio un gioco collettivo e possedendo la Juve carte importanti da calare sul tavolo, Pauolo Dybala ha provveduto nel giro di pochi minuti a risolvere il teorema russo.
Malgrado sia finita bene per i bianconeri, resta sospesa una considerazione di carattere specifico proprio rispetto a Cristiano Ronaldo. Si fosse trattato di un altro giocatore, importante ma non extraterrestre come lui, l’allenatore non gli avrebbe concesso di finire una partita che lo aveva visto per tutto il tempo vagolante ai margini e inaspettatamente impreciso nel tiro. La logica del gioco e il buon senso dell’opportunità avrebbero spinto Sarri a richiamare lui in panchina Non è accaduto, ma sarebbe opportuno che avvenisse. Mi rendo perfettamente conto che si sarebbe trattato di un’operazione clamorosa e forse anche impopolare, ma anche coraggiosa e fin necessaria anche per lo stesso Ronaldo il quale ha il dovere di mettersi in discussione quando occorre e di ammettere con onestà che, seppure episodicamente, in campo talvolta c’è chi può fare meglio di lui.