Il Cavaliere ha chiuso ieri pomeriggio sul tardi il suo corposo romanzo epico durato trent’anni. Dal giorno in cui, era il 1992, venne eletto per plebiscito presidente del nuovo partito da lui fondato, Forza Italia, è scese in campo con la forza e la violenza di un uragano sparigliando i canoni della politica.
Subito amato e subito odiato come accade da sempre per chi tuba il sonnolento e noioso “tran tran” della quotidianità dove, come faceva osservare il Gattopardo, occorre che tutto cambi per fare in modo che ogni cosa rimanga come prima. E non vi è dubbio che il “metodo Berlusconi” provvide a sradicare intere foreste di alberi secolari.
L’uso della comunicazione di massa come strumento essenziale per essere in posti differenti dello stesso istante aveva fatto da elastico al genio imprenditoriale del ragazzo borghese e lombardo che si guadagnava da vivere suonando il pianoforte e cantando in francese sulle navi da crociera.
L’impero delle televisioni non gli bastava. Pensò che per essere davvero popolare avrebbe dovuto entrare nel cuore della gente passando dalla porta delle sue emozioni più autentiche. Nulla di più vero vi era, allora, del calcio. Il Milan, dunque, sarebbe stato il suo Cape Canaveral dal quale prendere il volo verso il sole e le stelle.
Così anche il mondo del pallone, da quel momento, non fu più identico all’originale. Le nuove regole imposte dal Cavaliere secondo le quali l’etica era praticamente un optional e il “Colpo grosso”, come il titolo di una sua creatura televisiva vincente, rappresentava una necessità. Il calcio dei “ricchi un po’scemi” diventava così l’esercizio di un potere che andava oltre lo sport e che spiazzava la generazione dei Boniperti, Viola, Pianelli, Luzzara. Il Milan era la palestra del nuovo miracolo italiano firmato da campioni strapagati che italiani non erano i diretti dal guru romagnolo Sacchi. Ora al Cavaliere non restava che compiere l’ultimo salto per trasformarsi da cocoon in oligarca. Era appunto il ’92 quando Berlusconi annunciò che sarebbe sceso in campo perché l’Italia aveva bisogno di lui.
Un trentennio punteggiato dal tutto e dal di più. A livello nazionale e anche internazionale. Non Berlusconi, ma il berlusconismo a fare da metronomo per un Paese sempre più diviso e schierato o per l’amore folle o per l’odio a prescindere. Una centrifuga, a volte senza controllo, della quale Berlusconi era il controllore ma anche la vittima sena che però nessuno riuscisse, come accadde con Craxi, ad annullarne gli effetti.
Ci doveva pensare lui, seppure malvolentieri e convinto di essere nel giusto, a farsi da parte rinunciando al suo ultimo e definitivo step esistenziale. Quello di poter trascorrere altri sette anni della sua incredibile vita come ”padre della patria e di tutto gli italiani”. Un evento troppo divisivo per un Paese che ha necessità di compattezza. Domani, primo giorno di attività dei grandi elettori, il suo nome ben difficilmente comparirà sulle schede se non per provocazione. Lui, spinto dai suoi famigliari e soprattutto dai suoi alleati di coalizione, starà a guardare in televisione. E sarà un poco come Napoleone affacciato sulla scogliera di Sant’Elena. Osserverà la linea di confine che separa il cielo dal mare con dentro l’anima un gran magone.