Il calcio è impermeabile al rinnovamento?
«No, però ci sono peculiarità storiche e culturali che non cedono il passo a comando. Per esempio: è convinzione comune che i campionati nazionali siano alla base di tutto. Sacri, come il principio di competizione. Lì si misura il merito attraverso il quale si viene promossi alle competizioni europee. Che sono come un ristorante di lusso. Ma non di quelli in cui puoi entrare solo se sei un socio o un amico di qualcuno».
Si aspettava che la Superlega naufragasse così rapidamente?
«Mi sono stupito di più quando ho visto in che modo la stavano lanciando. Aspettavo una conferenza stampa a Parigi o Londra con tutti e dodici i presidenti, un marchio degno di questo nome, il racconto di un progetto. Non certo un annuncio a notte inoltrata. Mi viene persino difficile criticare l’iniziativa: talmente banale, piena di errori. Non posso neppure pensare a un bluff per mettere pressione sull’Uefa, visto che la nuova Champions è praticamente pronta. Hanno sbagliato i calcoli. Sono stati travolti dalla reazione di tifosi, politici, calciatori e allenatori. Il lato positivo è che adesso non ci troveremo più la Superlega agitata davanti a ogni tavolo. Ciò suggerisce una riflessione amara».
Cioè?
«Questi grandi club che fanno la storia, che vincono tanto nel loro Paese e all’estero, che sono i più seguiti, a chi sono in mano? Viene da chiederselo, guardando i bilanci e vedendo che cosa è successo negli ultimi giorni».
Che cosa succede adesso?
«Ho letto che il presidente dell’Uefa è contento così. Io non ho nulla contro Agnelli né contro gli altri. Qualche riga però andrà tirata. Doveva essere la terza guerra mondiale nel calcio, è accaduto solo che qualcuno ha dato fuoco a casa sua. Una gestione a dir poco dilettantesca. Ripeto, cadono le braccia a pensare che club tanto grandi siano in queste mani».