Roberto Baggio, sulla soglia dei suoi primi cinquant’anni, è buddista. Il secondo dei principi fondamentali dettati dal Buddha sostiene che il ciclo vitale di ciascun individuo e di ogni elemento terreno si risolve nei passaggi obbligati del nascere, crescere, decadere e scomparire. Roberto Baggio è scomparso. Non lui come individuo, naturalmente, ma la sua immagine di cartapesta che i Mangiafuoco del mondo del pallone gli avevano costruito addosso immaginando che, così facendo, avrebbero dato vita ad un bellissimo e affascinante “mostro” usabile e sfruttabile ogni oltre ogni legittimo confine temporale. Il mito. La leggenda. Il pifferaio magico. Illusi che avevano capito niente.
Roberto Baggio, volutamente e coscientemente, dopo essere nato e cresciuto eppoi aver consumato nel dolore fisico e morale la propria decadenza alla fine è scomparso esattamente come impone la regola cardine della sua religione che è anche filosofia oltreché legge immutabile dell’universo. Dacchè smise, con le ginocchia a pezzi, di rincorrere un pallone per domarlo e per offrirlo in dono alla gente come motivo di gioia intima e di soddisfazione estetica si è lasciato andare verso il buco nero dell’anonimato quotidiano e da lui si è fatto inghiottire. Con felicità e con serenità. Nessuna intervista. Nessuna comparsata televisiva. Nessuna interferenza a commento di un mondo professionale che pure gli appartenne per competenza e per qualità. Nessuna notizia da “vendere” alle copertine del suo presente, di quello di sua moglie e dei suoi figli. Nessuna attenzione alle cronache di quello che per lui è stato e sempre sarà soltanto un gioco. Una piccola e brevissima illusione, soltanto. Quando viene chiamato in Federazione per, dicono, ricoprire un ruolo importantissimo e utile all’educazione sportiva dei bambini. Una balla spaziale. Se ne accorge nel giro di tre mesi. Se ne va. Anzi, forse lì non c’era mai stato.
Compare, ma non a casa nostra. In Giappone dove, unico e sportivo al mondo, riceve il Premio per la Pace universale. Lui che si guarda bene dal prendere incarichi ufficiali da “ambasciatore” il cui compito sarebbe quello di produrre denaro vendendo la sua immagine di icona del pallone. Poi in Argentina dove va a caccia senza uccidere e dove soddisfa le ultime voglie di calcio andando a vedere qualche partita del Boca che è la sua squadra del cuore. Neppure nel paese di Caldogno lo vedono più di tanto. Vive nella sua “facenda” veneta la sua nuova età del contadino a tempo pieno nel nome e nel rispetto dei suoi antenati che lavoravano la terra. Non è più il simbolo del rigore sbagliato a Pasadina e neppure di quello non calciato a Firenze. Non è più il “Nove e mezzo” di Platini o il “Coniglio bagnato” dell’Avvocato. Erano stereotipi, quelli. Sovrastrutture create da altri per lui il quale di tutta quella baraonda intorno non aveva mai provato il bisogno. Un prato, un pallone e una porta dove metterlo dentro. Anche soltanto due sacchi a fare da pali e la luna a illuminare l’erba. Questo e basta ha sempre voluto. Il resto gli è stato dato perché lui lo ha meritato. Non richiesto. Resterà nelle canzoni di Cremonini e di Ferro. Nelle fotografie degli archivi di tutto il mondo. Negli articoli scritti per narrare le sue avventure. Resterà il mito. Non Roberto Baggio che, scegliendo di non esserci più, ha dato l’esempio più clamorosamente bello e pulito a quella parte di mondo che pur di esserci ad ogni costo venderebbe l’anima al diavolo. Grazie Roby.
@matattachia